Giorni, settimane, mesi di coronavirus. Un tempo che non ci restituirà nessuno. Un tempo dalle tante ombre e dai tanti colori, che ha le sfumature della malinconia, della preoccupazione, della speranza. Un tempo in cui si legge di più, si rimane collegati a oltranza per sapere le ultime novità. Intanto, tra una serenata al balcone e un flash-mob, “adda passà ‘a nuttata”. Ci si sente quasi degli eroi a restare a casa. A rispolverare l’orgoglio patriottico dell’essere italiani, e dimostrare di essere uniti. Dimenticandoci, però, che siamo quegli stessi italiani un po’ restii a rispettare le regole, a seguire i consigli. Gli stessi che, qualche volta, abbiamo parcheggiato anche in doppia fila.
Poi arriva il momento più critico, in cui si aspetta il bollettino serale sui numeri. Quelli che fanno sempre più paura. Sale il numero dei contagiati, sale quello dei morti. In quell’istante si avverte la linea di demarcazione tra l’“Andrà tutto bene” e “Il non va bene per niente”. Incollati a quei dati realizziamo che dal “paziente 1”, il primo risultato positivo al coronavirus in Italia, la scia di contagi e decessi non si è più fermata. Il pericolo è entrato a gamba tesa nelle nostre vite. Non c’è più la “zona rossa” e la “zona gialla”. Tutta l’Italia è “zona protetta” e le misure restrittive dei decreti governativi per frenare il contagio sono sempre più stringenti.
È una prova inedita per tutti. Ci scopriamo fragili, indifesi, talvolta anche cinici. Serve la riflessione, adesso. Senza retorica. È il momento del silenzio e del rispetto, in cui è doveroso abbassare il volume. Lo dobbiamo a tutti coloro che stanno lottando contro questo virus, a chi non ce l’ha fatta ed è morto in solitudine, alle loro famiglie. Lo dobbiamo, pensando a tutti quei mezzi militari che portano le bare delle vittime del coronavirus lontano da Bergamo, lontano dai loro cari. Un’immagine devastante che palesa le dimensioni di questa tragedia, più dei numeri, più di tante parole.
Gli eroi non siamo noi. Distesi sul divano a leggere e a sonnecchiare, a sfornare pane caldo e biscotti alla marmellata. A vedere tutorial su come lavare le mani. Non c’è niente di eroico e comprensibile nel sentire la voglia improvvisa di andare a correre, quando la principale raccomandazione di queste ore è di rimanere a casa. Giorni in cui la preoccupazione maggiore sembra quella di fare la spesa, come se non ci fosse un domani. E il punto è proprio questo, il nostro domani. Quando ci riapproprieremo del nostro domani? In questa corsa verso l’ignoto, ci facciamo domande. Sembra di vivere sospesi. Così, per esorcizzare la paura e accorciare la distanza che appare sempre più netta e lontana, cerchiamo disperatamente guanti, disinfettante, mascherine, ingegniamo mascherine “fai da te”, per uscire di casa e sentirci “a posto”. Per dire alla nostra coscienza di aver fatto il possibile. Dobbiamo e possiamo fare molto di più. È qui la discriminante tra la vita e la morte. Abbiamo dimostrato sempre una grande forza, adesso serve una forza quasi sovrumana e un ampio senso di responsabilità. E prendere atto che l’impensabile è arrivato nella nostra quotidianità. Chi avrebbe mai immaginato la Polizia locale col megafono, per le vie di città grandi e piccole, che ripete “Restate a casa”. Ma non solo pattuglie in strada. Sono arrivati anche i droni per controllare, via cielo, i nostri spostamenti e il rispetto delle restrizioni.
No, gli eroi non siamo noi chiusi per qualche settimana in una bolla dorata. L’eroe è chi si trova adesso in trincea. Una trincea tutta italiana, che mette in sordina ogni altra emergenza oltreconfine. I primi eroi sono i pazienti, catapultati in un dolore improvviso, inseguono un pezzo di respiro. Oltre alla sofferenza, la solitudine del loro isolamento. L’eroe è chi ha i segni sul viso dopo aver portato per dodici ore una mascherina in reparto. Chi si addormenta in infermeria dopo i doppi turni in corsia. Medici, infermieri e tutto il personale sanitario sempre più in affanno in pronto soccorso, in terapia intensiva, nei reparti di malattie infettive. Talvolta senza adeguati dispositivi di protezione. I medici che hanno accolto l’appello della Protezione civile per raggiungere le regioni più colpite (su trecento posti messi a bando, hanno risposto quasi in ottomila). I tanti volontari che in questo periodo danno una mano come possono. Chi non può restare a casa perché, ogni giorno, deve andare a lavorare. Chi in questo momento ci garantisce i servizi essenziali. I militari dell’Esercito che fanno i salti mortali nell’allestire ospedali da campo per far fronte all’emergenza Covid-19. Le nostre Forze armate e Forze dell’ordine ci sono sempre anche per chi, talvolta, le ha denigrate. Straordinari tutti. Sono gli eroi silenziosi, operativi nonostante le notti insonni, i ritmi estenuanti, i rischi quotidiani. Ma non si sentono degli eroi, non amano il clamore. “Facciamo solo il nostro dovere”, ripetono con dedizione. Ricordiamoci di loro più spesso. Questa è l’Italia migliore, insieme agli arcobaleni disegnati dai bambini e alla speranza che passa dal leitmotiv “Andrà tutto bene”.
Le testimonianze di chi è in prima linea per dare aiuto fanno venire la pelle d’oca. Un mio amico anestesista al Nord non si perde d’animo, ma è palpabile quale sia l’umore. Tredici ore di lavoro, di giorno e di notte. Quello che c’è in terapia intensiva è surreale. È intubata gente di ogni età. A riprova che al coronavirus interessa poco delle luci, dei canti, della bellezza, della ricchezza. Non guarda in faccia nessuno. È partito come un razzo dalla Cina e viaggia a una velocità incalcolabile. I medici e gli infermieri ogni giorno fanno qualcosa che va oltre il proprio dovere. Con i loro cellulari mettono in contatto i ricoverati con le famiglie per farli sentire più vicini. Videochiamate, semplici telefonate, anche solo per dire ciao. Un saluto che passa attraverso la linea della solidarietà. Ma ogni giorno ci sono anche le telefonate che nessuno vorrebbe mai fare, quelle per comunicare che la moglie, il marito, un proprio caro, non c’è più. Perché è proprio così, la gente muore senza aver visto parenti, senza averli salutati per l’ultima volta. Spaventati e soli. Parole che confermano quello che ascoltiamo in televisione: “Seguire tutti è impossibile, è un 11 settembre. Io tengo duro, i pazienti mollano e noi medici e infermieri ci stiamo ammalando quasi tutti”.
L’incertezza di questo periodo ci fa vivere in un limbo del “fine pena mai”. In cui ci si addormenta chiedendosi “cosa succederà domani”? “Come staranno i nostri cari”. L’angoscia, in queste ore, non è tanto quella di prendere il virus, quanto la sensazione di avere perso la libertà. Fuori c’è una vita che ci aspetta. I nostri parenti, il nostro lavoro. I luoghi del cuore. La voglia di indossare il vestito bello acquistato ai saldi. Di dire ai nostri amici ci vediamo là, al solito posto. Chissà come sarà adesso quel “solito posto”. Se sarà sbocciato il Biancospino. Perché la vita si è bloccata, ma per fortuna non si è fermata. La primavera è arrivata, le rondini stanno per tornare. La natura non sembra si sia accorta dell’emergenza, dei lutti, della paura. Sta sbocciando in tutta la sua bellezza. Anche i desideri restano vivi. Da sempre, in questo periodo, mi viene voglia di giocare a pallavolo. Perché, mi domando puntualmente. Non ho mai giocato, non saprei nemmeno farlo, probabilmente. Ma a ogni primavera torna questo ritornello. Le mie amiche di sempre lo sanno. Penso, allora, che quella frase che ho spesso letto sia vera: “Niente può fermare i nostri sogni”.
In questo periodo ci sentiamo improvvisamente potenziali untori. Come durante la peste del 1630 raccontata da Manzoni nei Promessi sposi. Non possiamo stringere una mano, dare un bacio, abbracciare. Non erano i piccoli gesti a sostituire le parole nei momenti di sconforto o di gioia? Sì, ma non adesso. Quella tenerezza che ha sempre alleggerito pensieri, smorzato tensioni, dato energia, oggi potrebbe essere infettiva. Contagiosa, nel senso più scuro. Chissà, quando torneremo alla normalità. Quando succederà, non sarà più la stessa cosa. Anche gli abbracci ci sembreranno inconsueti, fuori luogo. Ed è questo lo strascico più insidioso che ci lascerà il Covid-19, oltre ai morti e alla sofferenza causata. Ci muoveremo come alieni che arrivano sulla terra, imbarazzati dalla normalità. Che mai sia. Restiamo uniti, adesso. Anche senza sfiorarci.
Stiamo sperimentando anche il lavoro a distanza, lo “smart working”. In un tempo non sospetto, avremmo detto “wow, magnifico”. Oggi, invece, sbianchiamo di fronte a piattaforme di ogni tipo. Intere famiglie al Pc. Genitori che lavorano al computer mentre cercano di aiutare i figli che sperimentano la didattica a distanza. Fratelli e sorelle che si contendono tablet e cellulari per studiare. Docenti di ogni età che si cimentano in videolezioni e altre imprese titaniche, confrontandosi h24 sui gruppi Whatsapp. Tra collegamenti altalenanti e poca pratica. C’è chi sorride, chi è spazientito. Come non capire lo smarrimento di fronte a questa rivoluzione che stanno vivendo per primi. La tecnologia non è sempre la bacchetta magica per ogni cosa. D’altronde, l’Italia non è preparata a tutto questo, le famiglie, i lavoratori e la scuola nemmeno. Anche i ragazzi super tecnologici iniziano ad annaspare. Il rischio è di esplodere. Ma una cosa bisogna riconoscerla, gli sforzi messi in campo da tutti sono straordinari.
Passiamo giornate a fare una sorta di diario di bordo. A scrivere stati sui social e a chiedere “Voi che fate? Fatemi sapere come trascorrete le vostre giornate”. Sinceramente? Io sono preoccupata, cerco di non perdere il buonumore per chi mi sta accanto. Qualcuno mi ha detto di non far mancare la mia presenza a chi conta su di me. É la sfida quotidiana di tutti noi. Prendersi cura di se stessi, di chi si vuol bene, senza dimenticare gli altri. Un atto di coraggio, ogni giorno sempre di più. Sfoderare il sorriso con i bambini, difendere gli anziani da un certo cinismo e dire “No, non sono solo loro i più a rischio di questo virus impazzito”.
In questi giorni ho notato che si può anche essere un po’ strambi. Ci si veste di tutto punto. Con tanto di rossetto e accessori. Come se si dovesse andare a un appuntamento importante. Personalmente una di queste mattine mi sono preparata, ho messo il foulard di raso, quello delle buone occasioni, un po’ di profumo e via. Via non da casa. Dalla cucina, al salotto, al terrazzo. Dal salotto, al corridoio, alla camera da letto. Si sa, prepararsi aiuta lo spirito e se piccoli gesti come questi riescono a darci un po’ di normalità, va bene essere anche un po’ strambi.
Usiamo questo tempo anche per riflettere. Per conoscere un nuovo modo di pensare e di volersi bene. Per informarci, per rimescolare un po’ le carte e mettere ordine alle priorità. Avremo nuove consapevolezze, su ciò che conta davvero e cosa lasciare andare. In queste settimane ho pensato a tante cose. A mio fratello che è rimasto al Nord e non è andato in fuga come tanti. Solo lì, lontano dalle sue bambine, mostrando grande senso di responsabilità. Penso all’altro mio fratello che non può restare a casa, perché il suo lavoro non si è fermato. Affronta ogni giorno la sfida, senza lamentarsi. Ai miei nipoti e alle mie nipotine che vorrei vedere sempre felici. A mio padre e alla responsabilità di proteggerlo. E penso a quanto sia preziosa Maria e il tè delle 17. Cerco di essere vicina alla mia amica in attesa di una bimba e alle sue preoccupazioni. Cerco le parole per rincuorarla. Lei ha una grande energia ed è una mamma già speciale. Penso alla mia cara amica e collega a Roma, che mi dice “mi manchi” e mi commuove. Mi manchi anche tu, sapessi quanto. Penso alle mie amiche carissime che, seppur vicine, non posso riabbracciare. Ai sorrisi e alle domande curiose degli alunni del cuore. Alle colleghe, ai miei parenti, alla famiglia di sorelle nella Capitale. Penso ai miei amici e colleghi lontani, nuovi e conosciuti negli anni, e a coloro che sono impegnati personalmente in questa emergenza e in altre emergenze.
Penso al coraggio di essere coppia oggi, al tempo del coronavirus. Al rammarico di non condividere l’intimità di un bacio, di una carezza. Alle rinunce di un viaggio per riabbracciare l’affetto più bello. Alle prenotazioni nei bed and breakfast cancellate. Alle separazioni inevitabili con i fidanzati, i mariti. A chi si stava conoscendo e ha dovuto rimandare a tempi migliori. Alle passeggiate sostituite dalle chat con smile e cuoricini. All’attrazione decantata per telefono. E alla forza che ha l’Amore in questo momento. Tutto diventa eroico.
Il mio pensiero va a quelle città così contagiate oggi. Posti belli dove ho lavorato, con gente dal cuore grande. Alle Istituzioni che con le task force locali, regionali, nazionali stanno spendendo ogni energia. A chi ha dovuto chiudere la propria attività e alle conseguenze per le loro famiglie. Penso all’Italia tutta e al collasso dell’economia. A chi che non ha un tetto e rischia ancora di più. Da giornalista penso con tristezza a una certa informazione sensazionalistica e approssimativa, alle ospitate Tv prive di contenuti. Poi penso ai tanti giornalisti, e per fortuna esistono, che informano in modo chiaro e approfondito. Penso all’Italia bistrattata dal vicino Occidente, ma così indifferente. La solidarietà è arrivata dalla Cina, con tanto di medici e mascherine. Straordinaria la lezione di umanità e generosità dell’Albania. Presenti e solidali anche la Russia e Cuba. Pronti a fare la propria parte per noi.
Penso anche a me. Ai miei progetti, alle novità, ai viaggi da programmare. Alla mia continua voglia di conoscere, fare, rifare. Alle persone che non vedo l’ora di rivedere. Penso a chi mi ha dato fiducia e a chi me ne darà. Alle opportunità che ho avuto e a quelle che spero di avere. Penso anche alle opportunità che non ho avuto. Ai treni che non sono passati e quelli che ho preso. Ripenso a quelle parole di non senso dette all’improvviso. Ai grazie e alle scuse davanti agli errori. A quanto si possa essere fragili, talvolta non razionali. Penso alla salute come priorità e al dovere di tutelarla. Alla fortuna di avere una famiglia che mi vuole bene, e che adoro, e a tutte le persone che ci sono e a quelle che ci sono sempre state. E penso a quanto vorrei fare di più in questo momento.
È il momento della lista lunga lunga perché di fronte a tanta desolazione viene voglia di cambiare lo stato delle cose. Con una frase gentile, dei buoni propositi. Come se potessero bastare. Ma la situazione per tutti è delicata e ogni giorno è una scommessa, a ogni risveglio un pensiero di speranza. Per questo penso con maggiore consapevolezza al valore di quei gesti tante volte sottovalutati. Come un sorriso, un messaggio, un abbraccio, un caffè insieme. Pochi giorni fa ho inviato un messaggio a un amico, per avere sue notizie. Mi ha sorpreso la risposta: “Mi fa molto piacere il tuo messaggio, di questi tempi ci si accontenta di poco”. In quell’istante ho capito che soprattutto in momenti come questi è importante esserci. Non dimentichiamolo e impariamo a esternare più spesso le nostre emozioni.
Sono anche convinta che questo non sia il momento delle polemiche e dei rimpalli di responsabilità. Adesso serve tutta l’energia possibile per reagire. Non c’è tempo per il degrado del buonsenso. La vera sfida è portare avanti i propri sogni e fare in modo di non lasciare indietro lavoro e progetti. Facciamo anche in modo di non rimanere indietro nella solidarietà. Questo è il momento giusto. Sono sicura che non lo faremo, l’Italia ha un cuore immenso ed è capace di dimostrarlo non solo dai balconi e attraverso i flash-mob.
Si può essere vicini anche a distanza. Con il rispetto, la condivisione e, perché no, con vari slanci di altruismo e tenerezza. Nelle grandi città e nei piccoli paesi. Come i tassisti a Milano in strada a lavorare gratis per aiutare gli anziani negli spostamenti urgenti, ad altre forme di generosità. Immediata e improvvisata, come quella di Rocco, un giovane ristoratore lucano che pochi giorni fa ha preparato e regalato cento pizze agli anziani del paese. Consegnate porta a porta da un gruppo di volontarie, con guanti e mascherine. Bella la testimonianza di una di loro, Angela. Una nonnina voleva ricambiare quel dono con un bacio, il gesto più spontaneo. Ma che in questo periodo è off limits. La volontaria le ha detto che tornerà a prendere quel bacio. E sono sicura che quel giorno, seppure con un po’ di ritardo, arriverà la vera primavera. Ci troverà con i capelli spettinati, impreparati, ma sarà comunque bellissimo. E saranno saluti di carezze per tutti. Questo è il mio augurio. Teniamo stretti i nostri abbracci oggi per abbracciare più forte domani. E questa volta non salteremo il turno. Chi arriva prima aspetta.
Che questa possa essere una lezione di vita. Che trasuda di umanità, al di là delle sofferenze. Il pappagallo in gabbia è dispettoso. Il leone in gabbia è pericoloso. Non rendiamoci tali. Ricordiamoci più spesso che la libertà si conquista giorno per giorno. E che non si è invincibili. Ma siamo pieni di risorse e possiamo affrontare questa pandemia, perché tant’è, nel modo più indolore. Dobbiamo resistere, possiamo farcela. Non facciamoci rubare anche la speranza.
La pazienza ha più potere della forza
Resistiamo
Restiamo a casa
Restiamo umani
Maria Brigida Langellotti