Quella fame d’aria la conosco. Ronzio, prurito, sete, affanno. La pressione sulla gola. La visiera che si appanna continuamente. La voce sempre più flebile, fino a scomparire. Tutto in quella bolla di plastica. Che annienta, ma dà speranza. Quando indossi il casco “Cpap” (sistema di ventilazione assistita non invasiva che aiuta a respirare) è un arrivederci alla vita che pare un tempo senza fine. Si attende di riaffacciarsi alla normalità, aggrovigliati in una ragnatela di tubicini e fili.
Quella fame d’aria è tremenda. Si ha l’impressione di soffocare, quando invece la funzione del casco per l’ossigeno è proprio l’opposta. Si tenta di salvare. “Solo poche ore, una notte, due, vediamo. Poi lo togliamo, non avere paura”, rassicura un medico dall’accento campano. Mio coetaneo, mi dirà con un pizzico di commozione alcuni giorni dopo. Ma anche un minuto sembra un’eternità. Attimi, ore, giorni, in cui si perde il controllo, con un frastuono fisso nelle orecchie. Il momento più atteso è bere un po’ d’acqua con la cannuccia e lasciarsi bagnare le labbra screpolate, attraverso la zip di quel dispositivo con valvole e tubi.
Macchinari e apparecchiature intorno. Suoni, raggi luminosi e numeri che scorrono continuamente sugli schermi. Il rimbombo dell’allarme. A tratti sembra di essere in una discoteca. In realtà, tanta è la voglia di estraniarsi, da trasformare l’open space della rianimazione nella pista di una sala da ballo, con il soffitto illuminato dal riflesso delle lucine lampeggianti dei vari dispositivi. Le luci soffuse conciliano questa immagine dall’angolo semi-appartato del letto, come i “bip” delle macchine, il rumore dei ventilatori, il via vai di medici e infermieri impegnati in un costante monitoraggio.
“Respira, respira”. La parola d’ordine. “Non riesco a respirare, non posso”, dall’altra parte con un filo di voce. Tra attese, pensieri, occhi lucidi e occhi socchiusi, paure, speranze. Così passano le notti e i giorni nella Terapia intensiva, a centinaia di chilometri da casa. Dove tutto cambia: la vita, le certezze, le aspettative, le consapevolezze, il proprio io, il proprio noi, il senso delle cose.
Quella fame d’aria l’ho conosciuta. Qualche anno fa, quando il coronavirus ancora non c’era. Con me gli stivali e i guantoni appena comprati per andare, in un freddo febbraio, in cerca di notizie e di storie nei Balcani. L’amarezza di non poter più partire. Il non capire cosa stesse succedendo, gli sguardi smarriti di familiari e amici. E poi, quella email da inviare per annullare il viaggio in aereo e tutti gli impegni già pianificati. La difficoltà di scrivere e il raccomandarsi di trovare le parole giuste. Le stesse che famiglia, amici e tutti i protagonisti con il camice di quella anomala “discoteca”, hanno trovato per portare un raggio di luce e far tornare pian piano il sorriso.
Mi piace pensare che è tempo di recuperare. Quel viaggio e le storie dai Balcani non raccontate, la fiducia prima di tutto nel futuro e nel personale sanitario, spesso bistrattato, che si prende cura di ogni paziente. Senza sosta, senza lamentele e neanche tanti proclami. Che affronta le vere emergenze non in telelavoro o via social, ma silenziosamente in prima linea. È tempo di avere ancora più forza per resistere, più energia per scoprire nuovi orizzonti.
È anche tempo di parlare per portare messaggi positivi e di conforto. Anche se parlare di sé è sempre più difficile che raccontare le storie degli altri. Non è un imbarazzo stare male. È, piuttosto, una fase della vita che richiede coraggio, pazienza, speranza. Richiede anche affidarsi, per poi sbrogliare, pian piano, la matassa e guardare oltre. “Cerchiamo di pensare alle cose belle”, dicevo. Era veramente difficile, ma bisognava farlo. Provarci, provarci, provarci.
Maria Brigida Langellotti
“Tutti abbiamo dentro un’insospettata riserva di forza che emerge quando la vita ci mette alla prova” (Isabel Allende)
Avrei letto altre migliaia di pagine scritte da te, cara Brigida .
E’ semplicemente fantastico.
Grazie, grazie, grazie
Grazie di cuore per le tue parole. È sempre un onore scrivere e avere lettori come te che ti stimano. Un salutone a tutti voi.
Quella fame d’aria l’ho…vista. Qualche mese fa durante i pochi minuti in cui mi permisero di a stare accanto a mio papà che in tre giorni ad ottobre ha salutato tutti ed il mondo. Nei suoi occhi ho visto tutta quella sofferenza ed abbandono che tu hai saputo descrivere così bene nel tuo articolo,… leggendo le tue parole, se ne può provare l’emozione. Grazie, riesci sempre a trasmettere emozioni. Concordo con il commento di Vito…è semplicemente fantastico.
Ciao Brigida…
Grazie mille per il commento e per averne colto le sensazioni. Fiducia, smarrimento, sofferenza. Tutto affolla la mente in un attimo. Le cose non prendono sempre la direzione giusta, ma sapere che c’è un filo conduttore che non si spezza mai con chi si vuol bene, aiuta a reagire e a coltivare la speranza.
Mi spiace per la perdita del papà. Forza e resilienza.