Dove c’è sfruttamento, c’è schiavitù. Anche nel giornalismo

“Non credo che ci sia una schiavitù, non credo che ci sia la barbarie in Italia”. Ecco il pensiero del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, sulla situazione dei giornalisti in Italia. Il problema delle basse retribuzioni di tanti giornalisti è stato sottoposto alla sua attenzione dal presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, Enzo Iacopino, durante la conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio.

La risposa è stata chiara, e a mio parere anche molto imbarazzante. Evidentemente per Palazzo Chigi non esiste questo problema, evidentemente in Italia è più politicamente corretto essere distanti dai problemi concreti che accomunano tanti lavoratori, compresi i giornalisti.

Credo che sia una delle prime volte – se non la prima in assoluto – che, da giornalista, esprimo pubblicamente un’opinione che sfiora il piano politico. Ma quando si negano situazioni reali, che ledono diritti, il compito di un giornalista è soprattutto quello di raccontare la verità.

Presidente, la “fotografia” sul mondo del giornalismo del presidente Iacopino, la confermo anche io. Le redazioni sono sempre più affollate da tanti giovani con anni di gavetta ed esperienza alle spalle, ma che vivono di espedienti per sbarcare il lunario, senza rinunciare a fare bene, con professionalità e passione, questo lavoro. Giornalisti senza contratti seri che, spesso, si trasformano in ragionieri per fare quadrare i conti a fine mese: contano e ricontano battute, caratteri, moduli per racimolare da un articolo qualche centesimo in più. In questo conteggio anche gli spazi hanno un valore. Eggià, è una figura misera commisurare la lunghezza di un articolo alla sua validità, ma nel nostro Paese purtroppo succede. E non per avidità, lo chiarisco. Ma per spirito di sopravvivenza.

Presidente, ne ho visti di colleghi (collaboratori con paga a “pezzo”) anche nella “sua” bella città di Firenze, proprio quando Lei era sindaco, riempire taccuini con fiumi di inchiostro per confezionare un articolo interessante, ma anche “redditizio”. Anche se l’ultima parola sulle “lunghezze” dell’articolo spetta sempre al caposervizio. In quel periodo ho avuto la fortuna di avere un contratto da redattore, poi non nego di avere anche io contato e ricontato battute e caratteri quando, da redattore, sono diventata prima corrispondente, poi collaboratore. Anche questa è l’Italia: c’è chi cresce e chi decresce. Ecco solo degli esempi di chi ha avuto più fortuna (diciamo così) in questo settore, perché non dimentichiamo che ci sono tanti giornalisti che non hanno alcun tipo di contratto, ma che resistono, continuano a inviare curriculum in redazioni ed enti e che scrivono sui blog per seguire in qualche modo la propria aspirazione.

Presidente, anche io ho seguito il richiamo della politica appena ventenne (dunque qualche anno fa). Consigliere comunale, nell’opposizione, in un piccolo comune della Basilicata. Ricoprivo il mio ruolo con impegno e passione. E i miei colleghi di partito dicevano che ero anche portata. Poi, finito il mio mandato, ho fatto una scelta. Ho scelto la strada del Giornalismo. Tra le due anime c’era una deontologica incompatibilità (io ci tengo a certi dettami) perciò mi sono detta “qualche centesimo in meno, ma facendo il mestiere che amo”. Anche se è pur vero che non si vive solo di aria, e quindi, oltre alla gratificazione, bisogna pensare anche a dare risposte alle esigenze che la quotidianità impone.

Una riflessione sull’Ordine professionale. Un Ordine esiste anche per vigilare, garantire e tutelare la professione. Raggruppa una categoria professionale e stabilisce criteri per farne parte: detta delle regole (altrimenti tutti gli scribacchini si definirebbero giornalisti). Non solo per l’Ordine dei giornalisti, ma per tutti gli Ordini dovrebbe essere così. Sul fatto che serva una revisione generale sulla strutturazione dell’Ordine, concordo. Ma sull’abolizione netta di un determinato Ordine, ci penserei. Poi un dubbio, andrebbe abolito solo l’Ordine dei giornalisti?

Penso che non solo le catene riducano in schiavitù, ma anche tante condizioni di lavoro che spesso calpestano la dignità personale e professionale e negano i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione.

Io inviterei molti leader politici a fare un giro nelle redazioni, non solo per rilasciare interviste e per farsi belli. Ma per toccare con mano le situazioni di tanti colleghi che scrivono da “abusivi”, raggomitolati in stanzini e sottopagati. Per poi proseguire un giro nelle fabbriche e vedere come si lavora sodo, solo così sarà più politicamente corretto parlare di Pil e di sfide vinte.

L’Italia potrà crescere se saprà garantite per tutti i cittadini i diritti sanciti dalla Carta costituzionale. Non è negando i problemi che si cresce e si diventa più competitivi. Né agli occhi dell’UE e né del mondo intero.

La quotidianità del nostro Paese non si ferma alla Leopolda, ma è quella faticosa di molte famiglie che non arrivano a fine mese, di tanti pensionati che dopo una vita di risparmi devono fare i conti con alcune “banche” e di tanti giovani che sono costretti lasciare l’Italia per trovare un impiego. Come hanno fatto i nostri nonni, come hanno fatto i nostri padri. Quindi come cinquant’anni fa. Signori, dov’è, dunque, la differenza?

Che si faccia il “mea culpa” o il “nostra culpa” per aprire gli occhi e ricominciare e dare un futuro a questo Paese. Perché lo scopo deve essere quello della ripresa e di vedere più in là del proprio naso.

Altrimenti ha ragione il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Enzo Iacopino, quando dice: “Non ci resta che piangere”.

Maria Brigida Langellotti

Giornalismo: querelle Iacopino-Renzi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *