Siamo ciò che sappiamo fare, non come ci facciamo chiamare

Non è una desinenza che fa la differenza. Che attesta bravura e capacità. Di uomini e di donne. Anche se solitamente le donne si trovano a dover rimarcare. Per scelta personale o perché intrecciate nella rete dei dibattiti che automaticamente si sollevano. 
La polemica intorno alla decisione di Beatrice Venezi che chiede, sul palco del Festival di Sanremo, di essere chiamata “direttore” e non “direttrice d’orchestra”, ne è la conferma e mostra quanto si è ancora legati, nel nostro Paese, a stereotipi o pregiudizi di genere.
 

Non ho mai apprezzato le marcature e le definizioni nette legate al linguaggio di genere. E mi sorprendo ogni qualvolta che una scelta personale, legittima peraltro, venga traghettata verso dibattiti di genere in maniera estrema. Anche se penso che spesso puntualizzare è semplicemente un tentativo per fare polemiche e non per affrontare un argomento. 
Per questo condivido in pieno la riflessione del presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini, all’Adnkronos, sostenendo che “ognuno ha il diritto di essere chiamato come vuole nell’ambito della pluralità degli usi esistenti nella lingua italiana”.
Esatto, ognuno ha il diritto di farsi chiamare come vuole.
Finalmente, dopo giorni di esasperate polemiche, un po’ di buonsenso.
 
Decidere di usare l’uso tradizionale della lingua, ovvero “direttore” e non “direttrice”, a parer mio, non ha alcuna intenzione di negare l’evoluzione culturale del percorso di genere e vanificare le lotte di tante femministe. Così come non ha lo scopo di avvalorare un ruolo o per sentirsi più riconosciute: non è che se si definisce una professione al maschile si ha più autorevolezza. Di contro, non è che se si usa la forma femminile di una determinata professione si acquista più credibilità o si è più coerenti con il processo di emancipazione femminile. Solitamente è una questione di scelta linguistica, quando la grammatica  italiana lo consente. Ci vuole un giusto equilibrio in tutto, sia nelle scelte personale che in quelle altrui.
 
Il processo di rivoluzione e rivendicazione non passa da desinenze e declinazioni grammaticali o sottolineature. L’uso del linguaggio è importante, certamente, e serve per educare e rafforzare la realtà. Ma non è detto che una scelta linguistica che predilige il maschile, indebolisca l’equivalente concetto al femminile.  Spesso si sceglie di usare semplicemente un termine così come è nato e come sempre è stato usato. Senza incorrere in errori e tantomeno senza voler ribadire nulla o indurre a riflessioni politiche, ideologiche, filosofiche. 
 
L’affermazione del ruolo della donna si concretizza in altre situazioni. In particolare, attraverso il rispetto sui luoghi del lavoro, in famiglia, in politica, nella vita quotidiana. Le donne, nel tempo, hanno saputo dimostrare il loro valore, senza avere continuamente la necessità di ribadire che per qualificare la loro professione serve o non serve usare la “a” al posto della “o”. Il femminile al posto del maschile.
 
Questa polemica ricorda un po’ quella che che si è scatenata intorno al titolo dell’enciclica di Papa Francesco “Fratelli tutti”, un titolo (che fa riferimento a un testo di San Francesco, la sesta Admonitio) – secondo alcuni – poco inclusivo e poco attento al mondo donne. Un titolo che, in base alle critiche, non ha contemplato il termine “sorelle”. Anche in quell’occasione, si è scatenata una disquisizione sul lessico e sull’uso discriminatorio di alcuni vocaboli. Senza considerare la versatilità di alcuni termini con il loro uso estensivo.
 
È difficile sradicare l’uso originale di alcuni vocaboli nella lingua italiana, ma probabilmente è ben più complicato fare, ogni tanto, un passo indietro e accettare anche le decisioni degli altri. Che decidono senza necessariamente sbagliare. Che decidono senza dover dare sempre spiegazioni. Che decidono senza comunque dover essere tacciati di ignoranza o altro.
La nostra energia tiriamola fuori per difendere il ruolo e il valore della donna per le sue competenze e per i contributi che sa dare in ogni ambito lavorativo. Ogni giorno.
 
Le nostre belle penne usiamole per difendere colleghe anziché spesso ostacolare e criticare. Noi giornalisti cerchiamo di veicolare la nostra comunicazione per sostenere questo messaggio. Ciò è un processo ancor più in salita che pensare di rafforzare il proprio essere donna enfatizzando le desinenze più appropriate da usare.
Le nostre belle penne usiamole per riflettere anche su altri argomenti, più attinente in questo momento storico.
 
Quanto al direttore d’orchestra Beatrice Venezi, è brava. Giovane, preparata, raffinata. Più conosciuta all’estero che in Italia, dove in una delle rare occasioni in cui è stata invitata é stata criticata per la scelta di come definire il suo ruolo. Come se le sue capacità, acquisite dopo anni di studi e di gavetta, fossero date dalla desinenza di una parola. Bisognava arrivare sul palco del Festival di Sanremo e boooom! Non di applausi, ma di critiche. Tanto c’è sempre chi fa la scelta giusta, chi ne sa un po’ di più. Chi ha consigli su ogni cosa. Tutto un parlare su cosa sia giusto o sbagliato, relativamente alla decisione di Beatrice Venezi.
 
Ritengo che la vera rivoluzione ci sarà quando impareremo ad andare oltre, ad accettare le scelte degli altri. Soprattutto quando questi altri sono persone che sanno il fatto loro e che conoscono l’uso della lingua italiana. Non hanno bisogno di ripetizioni da noialtri. Se avessi letto altrettante riflessioni sulla bravura di questa nostra connazionale, conosciuta in tutto il mondo, dove è apprezzata per le sue capacità e dove i formalismi, le scelte linguistiche e personali passano in secondo piano, ecco in quel momento avremmo fatto un po’ tutti bingo e avremmo vinto un po’ tutti il Festival di Sanremo.
 
Senza moralismi e finta retorica, personalmente propendo per l’uso di direttore, di sindaco, di avvocato, di militare, ecc. Non rinnego quanto è stato fatto fino a questo momento in tema di “cultura di genere”, ma quando sento dire “la sindaca” al posto “del sindaco”, noto soltanto un tentativo di legittimare e avvalorare un ruolo che è già tale e non ha bisogno né di orpelli e né di precisazioni.  Così come finora non ho mai sentito dire in ambito militare “la maggiora” o “maggioressa” oppure “la colonnella”. Eppure questi ruoli esistono anche per le donne, eppure si sentono tali anche senza la necessità di racchiudersi in un paradigma linguistico netto. Sarà che in alcuni ambiti si è abituati più alla praticità.  
 
Quando mi è capitato di qualificare il mio ruolo di professionista, come giornalista, militare, docente, non mi sono mai soffermata su quale articolo o desinenza usare. E non mi sono mai sentita sminuita. Ho cercato solo di impegnarmi per dare il massimo. Come fa certamente Beatrice Venezi quando dirige un’orchestra. Come fa, nello stesso, modo chiunque, uomo o donna, voglia dimostrare ciò che sa fare.
Imparare a essere qualificati e apprezzati per ciò che sappiamo fare e non per come ci facciamo chiamare, è la vera arte.
Dunque, chapeau a chi difende sempre le proprie capacità e le proprie decisioni, al di là di fiumi di parole e inchiostro senza un perché.
 
Buona domenica
 
Maria Brigida Langellotti

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